Se ho ragione, non pago?

Se ho ragione, non pago?

Perché devo pagare l’avvocato se ho ragione?

L’attività dell’avvocato, così come quella di ogni altro lavoratore, se non è svolta a titolo di cortesia o beneficenza deve essere retribuita. E ovviamente è tenuto a retribuirla, come per ogni altra prestazione, colui che l’ha richiesta, cioè il cliente.

A questi fini, sapere se il cliente abbia ragione o torto – ammesso che lo si possa sapere con certezza nel momento in cui la prestazione viene resa – è del tutto ininfluente. Sarebbe come domandarsi: “perché devo pagare il carrozziere se qualcuno mi ha rigato il cofano con la chiave?”. E’ chiaro che il carrozziere che ripara il cofano, e l’avvocato che assiste il proprietario dell’auto nella richiesta dei danni contro il vandalo, devono entrambi essere pagati da chi dà loro l’incarico.

Ed è altrettanto chiaro che in un Paese civile, quelle spese dovrebbero, *poi*, essere rimborsate dal vandalo, se accertato colpevole del danneggiamento. Non a caso, l’articolo 91 del codice di procedura civile dispone che “il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al *rimborso* delle spese a favore dell’altra”. Si tratta di un “rimborso” proprio perché si suppone (nella pratica molto spesso erroneamente) che il cliente provveda a saldare il proprio avvocato senza attendere che il denaro gli arrivi dalla controparte soccombente.

L’esistenza concreta, e non meramente figurativa, di questo diritto al rimborso attiene alla civiltà stessa di un ordinamento giuridico. Come giustamente è stato giustamente notato (Diritto Processuale Civile, di Crisanto Martinoli, Giappichelli Editore, quattordicesima edizione, pag. 332): “se le spese del processo dovessero restare definitivamente a carico della parte che le ha anticipate, quel soggetto al quale il giudice dà ragione con la sua sentenza, ossia colui di cui viene riconosciuto il diritto, otterrebbe il riconoscimento di un diritto che in pratica sarebbe già decurtato dell’importo delle spese; se, insomma, per ottenere il riconoscimento del diritto a 100 si dovesse spendere (senza poter recuperare) 20, se ne dovrebbe desumere che l’ordinamento tutela i diritti all’80% e non nella loro integrità, il che contrasterebbe col fondamentale postulato che viceversa vuole i diritti integralmente tutelati e che, con riguardo al tema in discorso, può essere formulato dicendo, col Chiovenda, che la necessità di ricorrere al giudice non deve tornare a danno di chi ha ragione”.

Non è un caso se il Legislatore negli ultimi dieci anni è dovuto intervenire quattro volte per modificare l’articolo 92 del codice di procedura civile, nell’intento di evitare che la sovente “allegra” compensazione delle spese (per non parlare delle liquidazioni non compatibili, al ribasso, con l’attività svolta), frustrasse, come purtroppo ancora troppo spesso accade, la legittima aspettativa della parte che agisce o resiste in causa con ragione di vedersi rimborsate integralmente le spese di lite.

Esistono inoltre ulteriori ipotesi – quasi fisiologiche – nelle quali la parte non ottiene integralmente il rimborso delle spese legali anticipate. Infatti le spese a carico del soccombente sono liquidate secondo quanto previsto da parametri ministeriali (il DM 55/14), mentre quelle dovute dal cliente all’avvocato sono convenzionalmente pattuite in misura sostanzialmente libera, di modo che non è affatto scontato che i due criteri di calcolo debbano coincidere.

E’ da notare, poi, che il decreto ministeriale 55/14 prevede compensi per ogni fase del giudizio, sostanzialmente ” a forfait”, e ciò rende difficile l’adeguamento del compenso liquidato alle attività effettivamente svolte, anche considerando che il giudice, che liquida le spese a carico del soccombente, può non avere cognizione di tutte le attività compiute dall’avvocato, che ovviamente il cliente è tenuto a compensare. Solo per fare un esempio, il giudice non può sapere se il cliente ha avuto con l’avvocato cinque o venti colloqui nel corso del giudizio; ciò comporta che, di norma, il cliente compenserà l’avvocato per i colloqui di cui effettivamente ha usufruito, mentre il giudice liquiderà un compenso forfettario che può non essere aderente all’attività effettivamente svolta.

Vi sono anche casi normativamente previsti in cui il compenso liquidato contro il soccombente non coincide con quello dovuto dalla parte vittoriosa al proprio avvocato. Infatti, i compensi sono di norma parametrati al valore della causa (nel senso che la stessa attività è di norma più costosa nelle cause che hanno un valore più elevato); sennonché il valore della causa è determinato nel rapporto tra il cliente e il proprio avvocato diversamente da come si determina tra parte soccombente e parte vittoriosa: nel primo caso si tiene conto, ad esempio, alla somma domandata (art. 5, comma 2, del DM 55/14); nel secondo caso, alla somma determinata dalla sentenza che conclude il giudizio (art. 5, comma 1, Dm 55/14). Il tutto senza considerare che il valore della causa può, nei rapporti tra cliente ed avvocato, essere determinato convenzionalmente, ma di questa convenzione il giudice non può tener conto nella liquidazione delle spese di causa.

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